"Appartengo a una razza levantina, oscura, c'è in me un miscuglio di sangue greco e italiano: sono uno di quelli che voi francesi chiamate metechi, immigrati» dice, a una donna in cui vede l'immagine stessa della purezza, Dario Asfar, giovane me- dico che negli anni successivi alla prima guerra mondiale conduce un'esistenza miserabile nel Sud della Francia. E con sorprendente chiaroveggenza conclude: "Io credo che esista una fatalità, una maledizione. Credo che il mio destino era di essere un mascalzone, un ciarlatano ... Non si sfugge al proprio destino». Anche quando, molti anni dopo, non sarà più il «medicastro» che con il suo aspetto "miserabile e selvatico» e il suo accento straniero ispira solo diffidenza, anche quando sarà diventato ricco e famoso, e l'alta società parigina andrà umilmente a chiedergli di guarirla da quelle malattie dell'anima, da quelle «turbe psichiche», da quelle «fobie inspiegabili» che solo lui, il Master of souls (come viene definito da chi lo accusa di sfruttare la credulità del prossimo), è in grado di curare – anche allora il dottor Asfar si porterà dietro il marchio indelebile del suo destino, delle sue origini, del suo sangue. E quegli angiporti dell'Oriente da cui proviene, e che ha cercato di lasciarsi alle spalle, gli rimarranno per sempre negli occhi.
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